Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa
è il secondo appuntamento di
Selvatico.Tre/Una testa che guarda
SELVATICO.TRE/
Una testa che guarda
Il buco dentro agli occhi o il
punto dietro la testa
A cura di Massimiliano Fabbri
La vocazione al contemporaneo e alla costruzione di
mondi di Selvatico, si rivela attraverso una mostra, divisa in tre
sezioni e musei, che coinvolge ventotto autori che indagano su cosa
significhi oggi, guardare ancora al volto nel tentativo di
restituirlo attraverso il mezzo, pratica e disciplina della pittura e
disegno; mettendo una testa al centro della ricerca, e dandogli
spazio.
Il volto è lo scenario: da qui si parte per inseguire
ramificazioni e modi di vedere che si misurano tutti con il medesimo
tema, il soggetto per eccellenza, una testa, suo tradimento compreso.
Un
volto intercettato e impigliato sulla superficie come condensazione e
residuo, memoria e mappa, scrittura del tempo che si deposita sulla
pelle, rintracciabile e quasi anticipata dalla conformazione ossea,
leggibile nella forma esatta dell'occhio, nella linea delle labbra,
nei sentieri circolari dell'orecchio. Volto affrontato come campo di
battaglia. Panorama assai vasto e mai del tutto raccontato pienamente
o in modalità che possano dirsi definitive. Luogo familiare e
sconosciuto al tempo stesso. Primo amore. Ossessione a cui tornare.
O ancora
luogo del già detto, da forzare abbandonare, presenza che si
ripresenta all'infinito alla stregua di incubo e fantasma, in ottuse
ripetizioni pop e varianti molte a cui è impossibile sfuggire.
Immagine inafferrabile nel suo insieme; e così ci ritroviamo,
ancora, perduti nel dettaglio.
Il volto è la bellezza indicibile, spesso violata,
mistero vergine e genere al tempo stesso, simmetria perfetta, grazia
ed equilibrio delle parti; deformazione. Visione imparentata alla
divinità, così potente e accusante per la sua capacità di
guardare. Gli occhi delle statue sumere che possono vedere ciò che a
noi è interdetto. O rituale accademico e logoro, da ferire con
assalti iconoclasti, o da consumare con infinite ripetute carezze.
Maschera e strumento.
Il
titolo che abbraccia le tre sezioni della mostra, sembra voler
aprire, da un lato, a questa capacità attrattiva e catturante del
volto, dall'altro quasi a suggerire o spostare un po' più in là il
centro dell'attenzione, il punto vitale, fuori da questo profilo
codificato a favore di un luogo imprecisato, esterno, portando con sé
una potenziale condanna all'invisibilità. Come se una testa fosse
un'imprendibile entità che non possiamo mai vedere con esattezza o
completamente. Profondità che inghiottono come gorghi, sotto la
pelle, giù, dentro la notte e cavità interna, attraverso l'imbuto e
voragine dell'occhio, rovesciato punto di fuga prospettico, membrana
che apre e serra al mondo; e qualcosa che sfugge, che sembra non
potersi iscrivere in questa scena, collocandosi oltre al perimetro e
scatola della faccia. Come se il volto solo non bastasse, oppure
fosse troppo, troppo violento da sopportare e sostenere
con uno sguardo diretto; e occhio che, inaspettatamente, scarta e si
volge altrove, lasciando l'immagine incompiuta.
Questa
mostra riparte dallo sguardo dell'artista che prova a riscrivere o
ritrovare
infine sul volto, tracce di questa babele di significati ed echi, con
l'ingenua speranza, forse, di perderli, o ricomporli come archeologo
che ricuce storie perdute. O tentare di dimenticarle per un momento,
tutte queste ombre e spettri, a favore di una visione più forte e
accecante e nuova, di esattezza primitiva.
E
questo Selvatico funziona così come un grande specchio infranto che
ci restituisce più modi di vedere e riflessi molteplici di questo
volto labirintico; lo fa, ripartendo questa volta, da alcuni nomi già
visti nei precedenti episodi del progetto, richiamandoli in causa e
innestando su questa lista una serie di artisti che per la prima
volta espongono nei nostri musei.
Disegnare o
dipingere un volto è misurarsi con il problema del guardare e,
potenzialmente, dell'essere visti in questo ingaggio; o meglio
ancora, tutto questo processo si potrebbe iscrivere nella forma
dell'occhio, perimetro margine confine, occhio lago e gorgo in cui
sprofondiamo. Mandorla che si schiude, destinata a far ripiombare il
mondo nella tenebra e a farci vedere le cose per lampi e
bagliori. Occhio dio bulimico che si nutre di frammenti che
sedimentano e si sovrappongono nel buio senza mai saziarlo.
Del volto,
l'occhio è il centro che irradia, il doppio punto di fuga, da fuori
a dentro e viceversa; da qui, forse, la sfasatura, il fuori fuoco cui
tendiamo. L'occhio, nel volto, è un corpo estraneo. Gli occhi vitrei
di certe statue, in altre quasi assenti, in altre ancora cancellati e
distrutti per non essere visti nelle intrusioni e furti, o quelli di
certe decorazioni nei crani fatte talvolta con le conchiglie.
E se
l'occhio, dipinto o disegnato che sia, ha sempre a che fare con il
vedere e l'essere visti, dobbiamo essere disposti a credere che fare
un volto sia qualcosa di sostanzialmente differente dal misurarsi con
altri temi o soggetti; il volto ci costringe a un'attenzione
maggiore, a una differente tensione che possiamo chiamare, in maniera
un po' imprecisa e vaga sempre, somiglianza, anche quando questo
volto emerge da una macchia, o è distillato da estrema sintesi che
sembra astrarlo o ridurlo a geometria.
Dagli occhi
poi partono e irradiano fili e traiettorie che ci impigliano come
dentro a ragnatela, e inspessiscono l'aria collegando punti e
gettando ponti invisibili come i tracciati dei voli e delle rotte
degli aerei sulle carte geografiche. Che l'insistenza dello sguardo
fa male e può consumare, e da questa cerchiamo di proteggerci; così
l'occhio che vede è anche il luogo della sparizione, capace di
immobilizzarci ucciderci come lo sguardo di Medusa; o la sua presenza
è da evitare come lo specchio e le immagini guardanti, come succede
a Buster Keaton in Film di Beckett, assediato circondato
inseguito.
Senza questo
tipo di relazione, più o meno dolorosa, o empatica, o amorosa, senza
l'intrusione sconvolgente dello sguardo che ci fa vivi e fruga e
stana, che rilancia l'offerta e chiama a sé, il volto si ridurrebbe
a stereotipo e pratica sterile, a genere innocuo e, ritornando dentro
alla pittura, risospinto dopo esser stato neutralizzato e codificato,
perderebbe molto del suo potere sovversivo; che invece,
paradossalmente, mantiene proprio per il fatto di essere dipinto.
Questa mostra è la storia di questa contraddizione.
Come e
perché dipingere un volto allora è problema aperto, così come
problematica sempre la sua rappresentazione, bisogno e tentativo che
accompagna e seguirà l'uomo fino all'ultimo dei suoi giorni, pur se
cambiando inevitabilmente pelle, modificando e aggiustando
incessantemente, con le stagioni, canoni e gusti e parametri e modi
di vedere.
La
rappresentazione è destinata ancora a essere la nostra ombra e
compagna, la stessa ombra da cui si dice nata la pittura, a
sostituire una mancanza. E da questa ombra, dalle sue molteplici
definizioni, da un tentativo di avvicinamento e comprensione di
questo riflesso e proiezione che ci inchioda, parte questa mostra; da
una testa che guarda. Si potrebbe dire, alla ricerca della giusta
distanza, tra noi e l'altro, tra me e il mio doppio.
Cos'è
appunto che fa in modo che un volto, disegnato o dipinto, non sia
clamorosamente inadeguato?
Cosa
congiunge o passa o scorre sotto, tra un ritratto del Fayum e uno di
Lucian Freud?
C'è una
linea continua che gli artisti ripercorrono incessantemente e che
contribuiscono a ingrossare, un alveo a cui attingere, un fiume che
scorre accanto: ora accoglie, altre sommerge e immobilizza per troppo
guardare. Orfeo che si volge.
E se
l'occhio è una soglia, è come se il significato del volto, la sua
struttura ossea e di pelle e muscoli, l'anatomia più o meno
lombrosiana o romantica che ci porta a riconoscerlo e riconoscerci,
si situasse altrove, in un punto non raggiungibile, dentro, dietro,
fuori, oltre. E in questo, il volto, è ancora forma inafferrabile e
resistente, per quanto si cerchi di omologarlo negarlo
addomesticarlo.
Violenta
densità quella del volto, possiamo più o meno raccontarla, tentare
di descriverla e catturarla, di toccarla e abbracciarla con lo
sguardo: il nostro è sempre una specie di orientamento geografico e
mappa destinata all'inesattezza. Mettere la testa nel sacco e portare
via il trofeo, trofeo di sciamano che infonde forze ed energie nuove.
Ferita aperta il volto, in cui il mondo là fuori entra sempre; bocca
e orecchie e narici e occhi le porte.
Poi la
faccia, in tutto questo, oscilla e diventa vaga, come per troppa
osservazione o estrema vicinanza che la rende fluttuante, sfuocata,
immensa. Le teste dei nemici rimpicciolite. Paesaggio incerto e
mobile con buchi e amnesie di luce, macchie di luce bianca su grigio
e marrone. Fare un volto è una sorta di prima linea: è la trincea,
l'attacco e la difesa, l'avanzare e arretrare, il sonno e la fame,
l'assedio alle mura.
Tutta la
mostra è allora, idealmente, un unico volto, una grande testa non
finita e aperta, composta da un insieme di cellule e dettagli a cui
poter tornare come singole avventure e scoperte, punti della medesima
costellazione. Come torniamo del resto ai volti di altre epoche, che
meglio ci aiutano a comprendere e orientarci nel presente, guide
nell'intrico della foresta.
E se
qualcosa insomma ancora sfugge, questa mostra è la storia parziale,
arbitraria e incompleta di questo desiderio, il racconto di una
mancanza fatta attraverso una galleria di sguardi, teste e presenze
mute che sembrano interrogarci; l'ombra tracciata sulla parete si
diceva, l'ossessione dello sguardo che si sofferma e ruba nella
speranza di trattenere più informazioni possibili e dati e ricordi
del volto amato; e viso che sbiadisce negli intrecci della mente.
Il volto è
così, l'immagine culturale per eccellenza, contro natura, eppure
continua a essere la forma dell'aspirazione e struggimento, specchio
nel quale ci vediamo e riconosciamo, paesaggio infinito capace di
sperderci. L'altro, il me capovolto; il conturbante e il ritorno a
casa.
Che forse ci
vuole coraggio nel dipingere ancora un volto o, più probabilmente, è
l'unica cosa che possiamo ancora fare per cercare di evitare la
decorazione. E abbandonarlo, e cancellarlo anche questo volto, con
assalti e morsi e pentimenti che ributtano indietro...
E poi
spostare l'attenzione un po' in più in la, fuori, dietro, oltre la
finestra e le foglie tremanti trasparenti, foglie con ombre belle,
verso l'orizzonte, e il cielo finalmente.
MF
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