giovedì 13 novembre 2014

Selvatico.Tre / Una testa che guarda / Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa


Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa 

è il secondo appuntamento di 

Selvatico.Tre/Una testa che guarda

SELVATICO.TRE/ Una testa che guarda
Il buco dentro agli occhi o il punto dietro la testa

A cura di Massimiliano Fabbri

La vocazione al contemporaneo e alla costruzione di mondi di Selvatico, si rivela attraverso una mostra, divisa in tre sezioni e musei, che coinvolge ventotto autori che indagano su cosa significhi oggi, guardare ancora al volto nel tentativo di restituirlo attraverso il mezzo, pratica e disciplina della pittura e disegno; mettendo una testa al centro della ricerca, e dandogli spazio.
Il volto è lo scenario: da qui si parte per inseguire ramificazioni e modi di vedere che si misurano tutti con il medesimo tema, il soggetto per eccellenza, una testa, suo tradimento compreso.
Un volto intercettato e impigliato sulla superficie come condensazione e residuo, memoria e mappa, scrittura del tempo che si deposita sulla pelle, rintracciabile e quasi anticipata dalla conformazione ossea, leggibile nella forma esatta dell'occhio, nella linea delle labbra, nei sentieri circolari dell'orecchio. Volto affrontato come campo di battaglia. Panorama assai vasto e mai del tutto raccontato pienamente o in modalità che possano dirsi definitive. Luogo familiare e sconosciuto al tempo stesso. Primo amore. Ossessione a cui tornare.
O ancora luogo del già detto, da forzare abbandonare, presenza che si ripresenta all'infinito alla stregua di incubo e fantasma, in ottuse ripetizioni pop e varianti molte a cui è impossibile sfuggire. Immagine inafferrabile nel suo insieme; e così ci ritroviamo, ancora, perduti nel dettaglio.
Il volto è la bellezza indicibile, spesso violata, mistero vergine e genere al tempo stesso, simmetria perfetta, grazia ed equilibrio delle parti; deformazione. Visione imparentata alla divinità, così potente e accusante per la sua capacità di guardare. Gli occhi delle statue sumere che possono vedere ciò che a noi è interdetto. O rituale accademico e logoro, da ferire con assalti iconoclasti, o da consumare con infinite ripetute carezze. Maschera e strumento.

Il titolo che abbraccia le tre sezioni della mostra, sembra voler aprire, da un lato, a questa capacità attrattiva e catturante del volto, dall'altro quasi a suggerire o spostare un po' più in là il centro dell'attenzione, il punto vitale, fuori da questo profilo codificato a favore di un luogo imprecisato, esterno, portando con sé una potenziale condanna all'invisibilità. Come se una testa fosse un'imprendibile entità che non possiamo mai vedere con esattezza o completamente. Profondità che inghiottono come gorghi, sotto la pelle, giù, dentro la notte e cavità interna, attraverso l'imbuto e voragine dell'occhio, rovesciato punto di fuga prospettico, membrana che apre e serra al mondo; e qualcosa che sfugge, che sembra non potersi iscrivere in questa scena, collocandosi oltre al perimetro e scatola della faccia. Come se il volto solo non bastasse, oppure fosse troppo, troppo violento da sopportare e sostenere con uno sguardo diretto; e occhio che, inaspettatamente, scarta e si volge altrove, lasciando l'immagine incompiuta.

Questa mostra riparte dallo sguardo dell'artista che prova a riscrivere o ritrovare infine sul volto, tracce di questa babele di significati ed echi, con l'ingenua speranza, forse, di perderli, o ricomporli come archeologo che ricuce storie perdute. O tentare di dimenticarle per un momento, tutte queste ombre e spettri, a favore di una visione più forte e accecante e nuova, di esattezza primitiva.

E questo Selvatico funziona così come un grande specchio infranto che ci restituisce più modi di vedere e riflessi molteplici di questo volto labirintico; lo fa, ripartendo questa volta, da alcuni nomi già visti nei precedenti episodi del progetto, richiamandoli in causa e innestando su questa lista una serie di artisti che per la prima volta espongono nei nostri musei.
Disegnare o dipingere un volto è misurarsi con il problema del guardare e, potenzialmente, dell'essere visti in questo ingaggio; o meglio ancora, tutto questo processo si potrebbe iscrivere nella forma dell'occhio, perimetro margine confine, occhio lago e gorgo in cui sprofondiamo. Mandorla che si schiude, destinata a far ripiombare il mondo nella tenebra e a farci vedere le cose per lampi e bagliori. Occhio dio bulimico che si nutre di frammenti che sedimentano e si sovrappongono nel buio senza mai saziarlo.
Del volto, l'occhio è il centro che irradia, il doppio punto di fuga, da fuori a dentro e viceversa; da qui, forse, la sfasatura, il fuori fuoco cui tendiamo. L'occhio, nel volto, è un corpo estraneo. Gli occhi vitrei di certe statue, in altre quasi assenti, in altre ancora cancellati e distrutti per non essere visti nelle intrusioni e furti, o quelli di certe decorazioni nei crani fatte talvolta con le conchiglie.
E se l'occhio, dipinto o disegnato che sia, ha sempre a che fare con il vedere e l'essere visti, dobbiamo essere disposti a credere che fare un volto sia qualcosa di sostanzialmente differente dal misurarsi con altri temi o soggetti; il volto ci costringe a un'attenzione maggiore, a una differente tensione che possiamo chiamare, in maniera un po' imprecisa e vaga sempre, somiglianza, anche quando questo volto emerge da una macchia, o è distillato da estrema sintesi che sembra astrarlo o ridurlo a geometria.
Dagli occhi poi partono e irradiano fili e traiettorie che ci impigliano come dentro a ragnatela, e inspessiscono l'aria collegando punti e gettando ponti invisibili come i tracciati dei voli e delle rotte degli aerei sulle carte geografiche. Che l'insistenza dello sguardo fa male e può consumare, e da questa cerchiamo di proteggerci; così l'occhio che vede è anche il luogo della sparizione, capace di immobilizzarci ucciderci come lo sguardo di Medusa; o la sua presenza è da evitare come lo specchio e le immagini guardanti, come succede a Buster Keaton in Film di Beckett, assediato circondato inseguito.
Senza questo tipo di relazione, più o meno dolorosa, o empatica, o amorosa, senza l'intrusione sconvolgente dello sguardo che ci fa vivi e fruga e stana, che rilancia l'offerta e chiama a sé, il volto si ridurrebbe a stereotipo e pratica sterile, a genere innocuo e, ritornando dentro alla pittura, risospinto dopo esser stato neutralizzato e codificato, perderebbe molto del suo potere sovversivo; che invece, paradossalmente, mantiene proprio per il fatto di essere dipinto. Questa mostra è la storia di questa contraddizione.

Come e perché dipingere un volto allora è problema aperto, così come problematica sempre la sua rappresentazione, bisogno e tentativo che accompagna e seguirà l'uomo fino all'ultimo dei suoi giorni, pur se cambiando inevitabilmente pelle, modificando e aggiustando incessantemente, con le stagioni, canoni e gusti e parametri e modi di vedere.
La rappresentazione è destinata ancora a essere la nostra ombra e compagna, la stessa ombra da cui si dice nata la pittura, a sostituire una mancanza. E da questa ombra, dalle sue molteplici definizioni, da un tentativo di avvicinamento e comprensione di questo riflesso e proiezione che ci inchioda, parte questa mostra; da una testa che guarda. Si potrebbe dire, alla ricerca della giusta distanza, tra noi e l'altro, tra me e il mio doppio.
Cos'è appunto che fa in modo che un volto, disegnato o dipinto, non sia clamorosamente inadeguato?
Cosa congiunge o passa o scorre sotto, tra un ritratto del Fayum e uno di Lucian Freud?
C'è una linea continua che gli artisti ripercorrono incessantemente e che contribuiscono a ingrossare, un alveo a cui attingere, un fiume che scorre accanto: ora accoglie, altre sommerge e immobilizza per troppo guardare. Orfeo che si volge.

E se l'occhio è una soglia, è come se il significato del volto, la sua struttura ossea e di pelle e muscoli, l'anatomia più o meno lombrosiana o romantica che ci porta a riconoscerlo e riconoscerci, si situasse altrove, in un punto non raggiungibile, dentro, dietro, fuori, oltre. E in questo, il volto, è ancora forma inafferrabile e resistente, per quanto si cerchi di omologarlo negarlo addomesticarlo.
Violenta densità quella del volto, possiamo più o meno raccontarla, tentare di descriverla e catturarla, di toccarla e abbracciarla con lo sguardo: il nostro è sempre una specie di orientamento geografico e mappa destinata all'inesattezza. Mettere la testa nel sacco e portare via il trofeo, trofeo di sciamano che infonde forze ed energie nuove. Ferita aperta il volto, in cui il mondo là fuori entra sempre; bocca e orecchie e narici e occhi le porte.
Poi la faccia, in tutto questo, oscilla e diventa vaga, come per troppa osservazione o estrema vicinanza che la rende fluttuante, sfuocata, immensa. Le teste dei nemici rimpicciolite. Paesaggio incerto e mobile con buchi e amnesie di luce, macchie di luce bianca su grigio e marrone. Fare un volto è una sorta di prima linea: è la trincea, l'attacco e la difesa, l'avanzare e arretrare, il sonno e la fame, l'assedio alle mura.

Tutta la mostra è allora, idealmente, un unico volto, una grande testa non finita e aperta, composta da un insieme di cellule e dettagli a cui poter tornare come singole avventure e scoperte, punti della medesima costellazione. Come torniamo del resto ai volti di altre epoche, che meglio ci aiutano a comprendere e orientarci nel presente, guide nell'intrico della foresta.
E se qualcosa insomma ancora sfugge, questa mostra è la storia parziale, arbitraria e incompleta di questo desiderio, il racconto di una mancanza fatta attraverso una galleria di sguardi, teste e presenze mute che sembrano interrogarci; l'ombra tracciata sulla parete si diceva, l'ossessione dello sguardo che si sofferma e ruba nella speranza di trattenere più informazioni possibili e dati e ricordi del volto amato; e viso che sbiadisce negli intrecci della mente.
Il volto è così, l'immagine culturale per eccellenza, contro natura, eppure continua a essere la forma dell'aspirazione e struggimento, specchio nel quale ci vediamo e riconosciamo, paesaggio infinito capace di sperderci. L'altro, il me capovolto; il conturbante e il ritorno a casa.

Che forse ci vuole coraggio nel dipingere ancora un volto o, più probabilmente, è l'unica cosa che possiamo ancora fare per cercare di evitare la decorazione. E abbandonarlo, e cancellarlo anche questo volto, con assalti e morsi e pentimenti che ributtano indietro...
E poi spostare l'attenzione un po' in più in la, fuori, dietro, oltre la finestra e le foglie tremanti trasparenti, foglie con ombre belle, verso l'orizzonte, e il cielo finalmente.

MF







 

facebook.com/luigi.varoli.cotignola

 

 

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